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In morte di un bambino


Ha suscitato molte polemiche la scelta di tanti quotidiani italiani di pubblicare la fotografia del piccolo profugo curdo annegato ieri sulla spiaggia di Bodrum.

Dai microfoni di Prima Pagina, programma in onda tutte le mattine su Radio 3, il giornalista Carlo Trecce ha difeso la bontà di questa scelta, argomentando che la stampa ha il dovere di informare il pubblico, allo scopo di smuovere le coscienze e provocare indignazione nei nostri animi. Come lui, così anche la redazione del Manifesto, che oggi ha pubblicato un articolo dal titolo “Il dovere di indignarsi”, motivando la decisione di pubblicare la fotografia.

Potrebbe essere anche un discorso giusto, in linea teorica. Ma ieri, su Repubblica, l’immagine del piccolo siriano era affiancata a una pubblicità a piena pagina di una nota azienda di abbigliamento intimo, in cui una prosperosa ragazza si affacciava di schiena a un balcone.

Vorrei che qualcuno mi spiegasse che razza di informazione è questa, che accosta così disinvoltamente la prova visiva di una tragedia umanitaria al simbolo del benessere occidentale. L’unico effetto che si ottiene, dal mio punto di vista, è che la foto del bimbo affogato diventa un puro feticcio. Ai giornalisti vorrei rispondere che, in una società caratterizzata da un consumo bulimico di immagini, l’ostentazione della tragedia e della violenza - peraltro decontestualizzata , anzi, fuorviata come nel caso di Repubblica - non genera più indignazione, ma assuefazione.

L’indignazione può scaturire solo da un’analisi complessiva dei fatti, dall’indagine delle loro cause scatenanti che, invece, restano completamente oscure alla maggior parte dei lettori italiani. Non è suscitando pietà per l’effetto ultimo di processi complessi, che tra l’altro vedono responsabile quella stessa civiltà occidentale glorificata dalle pubblicità, che potrà innescarsi un cambiamento. Abituati ad essere investiti dalle immagini senza essere più capaci di interpretarle, non siamo più neppure in grado di provare un’empatia che vada oltre la commozione del momento.

Di fronte alla paginata di Repubblica, se avessimo avuto ancora un briciolo di spirito critico, l’indignazione sarebbe dovuta sorgere semmai proprio davanti a quella reclame, che si affida al culo di una bella ragazza e al fascino della tradizione italiana (evocato dall’architettura del balcone) per camuffare l’origine di quello straccetto indossato, cucito da chissà chi, in chissà quali condizioni, in chissà quale paese asiatico. Ma, evidentemente, per la stampa c’è indignazione indignazione e quella che lede certi interessi non deve essere incentivata.

Ai media italiani vorrei suggerire di riascoltare con attenzione la bellissima Canzone della non appartenenza di Giorgio Gaber, di cui riporto uno stralcio a cui le polemiche di questi giorni mi hanno fatto ripensare:

“Ma se guardo il mondo intero che è solidale e si commuove in coro i filmati di massacri osceni con tanti primi piani di mamme e bambini mi vien da dire che se questo è amore sarebbe molto meglio non essere buoni. Se provo a guardare il mondo civile così sensibile con chi sta male il cinismo di usare la gente col gusto più morboso di un corpo straziante mi vien da urlare che se questo è amore io non amo nessuno non sento proprio niente”

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